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Democrazia e organizzazione nei movimenti degli anni 2010: su If We Burn, di Vincent Bevins.

Davide Gallo Lassere

Andrea di Gesu

Come i decenni 1960 e 1970, quello passato è stato scandito dall’inizio alla fine da mobilitazioni di ogni genere. Gli anni 2010, infatti, sono stati attraversati da occupazioni, scioperi, blocchi, esodi, rivolte, ecc. Più che ai movimenti degli anni ’60, tuttavia, l’ascesa, la natura e lo sviluppo di queste sollevazioni ricordano più da vicino quelli degli anni ’70. A tal proposito, Michael Hardt ha elaborato una chiave di lettura intrigante. Secondo il filosofo americano, se le lotte degli anni ’60, caratterizzate dai movimenti operai e anticoloniali, hanno coronato e, al contempo, concluso il periodo che va dalla formazione dei movimenti rivoluzionari alle lotte di liberazione nazionale, i conflitti degli anni ’70 hanno invece inaugurato la nostra epoca. Dal punto di vista dei movimenti sociali, quest’ultima è caratterizzata da: 1. la crisi delle istituzioni che avrebbero dovuto rappresentare i movimenti progressisti e rivoluzionari; 2. l’emergere di nuove soggettività; 3. la fine della disponibilità alle mediazioni da parte dello Stato e del capitale; e 4. la necessità di mettere in atto nuove forme di organizzazione1.

Ora, senza forzature eccessivamente continuiste, è chiaro che sotto molti aspetti i cicli di lotte che si sono susseguiti dal 2008 su scala globale hanno fondamentalmente confermato questo quadro: 1. partiti e sindacati hanno partecipato alle mobilitazioni, ma quasi mai ne hanno diretto la dinamica; 2. i movimenti hanno visto all’opera composizioni eterogenee, animate da una pluralità di soggettività molto diverse tra loro; 3. hanno dovuto affrontare una brutale repressione poliziesca e giudiziaria; e 4. nonostante alcune significative rotture nella riproduzione dell’esistente, non sono riusciti ad aprire delle brecce capaci di espandersi, radicandosi negli spazi sociali e geografici e istituzionalizzandosi nel tempo, a medio e lungo termine.

Come osserva il giornalista Vincent Bevins, autore di un affascinante resoconto storico che copre il periodo dal 1° gennaio 2010 al 1° gennaio 2020, alla fine del 2019, dopo un’eccezionale stagione di sollevamenti popolari che si estendeva «dal Cile a Hong Kong, il mondo aveva conosciuto più manifestazioni di massa nel decennio appena trascorso che in qualsiasi altro momento della storia dell’umanità, superando il celebre ciclo globale di contestazione degli anni ’602». Di questa imponente ondata rivoluzionaria, i cui effetti a livello nazionale e geopolitico sono ancora oggi evidenti e lungi dall’essersi esauriti, Bevins intende ricostruire la storia, optando per uno sguardo globale ma scegliendo il Sud del mondo come punto di vista privilegiato. Il libro analizza infatti i movimenti che hanno scosso e talvolta sconvolto gli assetti politico-istituzionali di dieci paesi (Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Corea del Sud e Cile), ignorando deliberatamente, pur riconoscendone l’importanza, i casi di Spagna, Grecia e Stati Uniti (il riferimento a quest’ultimo caso è naturalmente al movimento Occupy). Nelle oltre 300 pagine che compongono il libro, Bevins si basa innanzitutto sulle testimonianze dirette degli attivisti che vi presero parte, integrandole però ad un’efficace analisi dei contesti nazionali specifici e della storia recente dei paesi convolti. Più in particolare, l’autore mostra le connessioni, gli scambi e le influenze reciproche che li hanno attraversati e collegati, rendendoli parte di un movimento realmente globale. In quella che è senza dubbio la parte più saliente del libro, l’autore propone poi uno studio comparativo, a sua volta funzionale ad una diagnosi generale del significato politico d’insieme di tali sollevamenti e dei loro risultati.

Secondo Bevins, i movimenti degli anni Dieci sono accomunati dal loro carattere orizzontale e prefigurativo. Per ciò che riguarda l’orizzontalità, nella loro totalità essi hanno rifiutato la gerarchia e i rimandi a modelli leninisti di organizzazione politica, opponendosi ad ogni forma di rappresentanza, esprimendosi su basi in larga misura spontanee e coordinandosi in modo determinante sui social network. Al tempo stesso, essi hanno anche cercato, soprattutto attraverso le occupazioni delle piazze e le organizzazioni assembleari, di costruire qui e ora un’immagine della società diversa a cui aspiravano.

Secondo l’autore, sono proprio tali caratteri, e nello specifico un culto dell’orizzontalità spinto talvolta al parossismo, ad aver pregiudicato fin dall’origine il loro fallimento. Se pressoché tutti i paesi coinvolti hanno in seguito vissuto svolte autoritarie (Brasile, Turchia) quando non apertamente dittatoriali (Egitto), e se, come ricorda il sottotitolo del libro, questi enormi sommovimenti globali non sono sfociati in nessuna trasformazione rivoluzionaria in senso proprio, ciò sarebbe dovuto soprattutto alle loro caratteristiche intrinseche. L’assenza di rappresentanza e di strutture politiche organizzate, così come la mancanza di un orizzonte politico chiaro – tutte conseguenze del loro orizzontalismo – avrebbero infatti reso questi movimenti estremamente fragili di fronte alla repressione, e vulnerabili al loro recupero e alla loro risignificazione da parte di forze reazionarie esterne e meglio organizzate, in quanto strutturalmente incapaci di riempire il vuoto politico che essi stati hanno suscitato.

Senza dubbio, il libro di Bevins presenta notevoli pregi. Aldilà di quelli già ricordati e del metodo basato su centinaia di interviste qualitative, si tratta ad oggi del tentativo più ambizioso di ricostruzione dei vari cicli di lotte e sommovimenti degli anni Dieci, in particolare per l’ampiezza geografica dell’analisi, la quale contrasta efficacemente l’autoreferenzialità di tante diagnosi occidentali. L’analisi politica, poi, contiene spunti interessanti, in particolare riguardo ai vari elementi in comune ai movimenti presi in considerazione, soprattutto rispetto alle dinamiche drammatiche del loro recupero e strumentalizzazione (come nel caso del Brasile).

L’approccio di Bevins, tuttavia, per quanto utile e perspicace, ignora quasi del tutto una questione fondamentale posta al centro di quei cicli, ossia la centralità della democrazia. Tale punto cieco condiziona in modo significativo l’analisi del giornalista, privandola di un fattore determinante per il loro significato politico.

Dal ciclo di lotte del 2011 fino a quello del 2018-19, è in effetti difficile sottostimare l’importanza della questione democratica, evocata da quel Democracia real ya! che non a caso è stato uno degli slogan più emblematici del periodo. Con tale espressione ci riferiamo alla denuncia della crisi endemica delle istituzioni democratiche liberali al centro di molti movimenti di quella stagione. Si è trattato, da un lato, una protesta inedita per la sua forza, la quale, assieme al movimento altermondialista di fine anni ‘90/inizio anni 2000, ha costituito una reazione di massa su scala globale rispetto alla perdita di potere e di legittimità dei meccanismi democratici causata dalla governance neoliberale – uno svuotamento della forma e dei contenuti acutizzatosi ancora di più dopo la crisi del 2008. Dall’altro, essi hanno dato luogo a un tentativo inedito di ripensare e talvolta prefigurare una democrazia reale, obiettivo in particolare delle esperienze di occupazioni di piazza e degli esperimenti assembleari dello scorso decennio.

La presa in conto di tale questione rende evidenti alcuni limiti della ricostruzione di Bevins. Essa permette, in particolare, di cogliere la natura non solo tattica, ma anche strategica e ancor più politica dell’orizzontalismo: esso non fu sempre e soltanto espressione di un rifiuto irriflesso della gerarchia e della corruzione strutturali delle forme di rappresentanza, ma il tentativo – certo embrionale, ma non meno significativo – di ripensare radicalmente il funzionamento e il senso stesso di una società democratica al di là del regime neoliberale. Ciò rende, crediamo, politicamente più leggibili almeno alcuni di quei movimenti, tanto nei loro obiettivi che nel loro significato storico-politico: essi furono senz’altro estremamente eterogenei, ma forse non così opachi e privi di un’unica direzione come Bevins sembra a tratti credere.

D’altro canto, la centralità del riferimento alla democrazia fornisce una spiegazione ulteriore del loro recupero reazionario. È in effetti difficile non vedere, nel proliferare di quegli anni di partiti antisistema e della loro retorica contro i partiti tradizionali, la perversione del discorso critico articolato da quei movimenti, così come delle loro istanze democratiche: se è vero che alcuni di quei partiti hanno al contrario saputo rappresentarle fedelmente, almeno fino a un certo punto – come nel caso di Podemos, per esempio, sebbene sfortunatamente i contro-esempi, come quello di Bolsonaro, più numerosi. È insomma la terribile ambiguità del significante democratico a spiegare, spesso, il modo in cui quei movimenti hanno nutrito senza volerlo svolte autoritarie, più che – come vorrebbe Bevins – la semplice orizzontalità e le sue implicazioni; nonché, per inciso, la relativa perdita di importanza, in alcuni di essi, della questione sociale, che Bevins imputa all’individualismo implicito nei movimenti orizzontali.

Nonostante questi limiti, le questioni poste da If we burn su organizzazione e prospettive strategiche rimangono centrali. Se l’orizzontalità non è, come Bevins sembra sostenere, solo un ambiguo lascito tattico delle lotte degli anni Dieci, non per questo è possibile ignorare i suoi fallimenti, di cui egli rintraccia con efficacia alcune delle cause. Tanto più nel regime di guerra globale e nel pieno della svolta postfascista dell’Occidente. Oggi più che mai appare infatti necessario aggiornare e rilanciare le rivendicazioni democratiche di quei movimenti – senza prestare il fianco ad un loro recupero, questa volta prevedibilmente da parte di una classe politica liberale sempre più in crisi. Al contempo, però, risulta essenziale prendere atto dei limiti dell’orizzontalità di principio: non per stravolgerla, ma per ripensarne le articolazioni possibili con la verticalità e la rappresentanza, nonché per porre altrimenti la questione dell’organizzazione, al di là dello spontaneismo. Un compito che in molti – dall’ultimo libro di Negri e Hardt a quello di Nunes discusso in questo numero – hanno già intrapreso, e a cui il testo di Bevins fornisce un contributo importante.

Copertina del primo numero di Teiko

Note

  1. M. Hardt, Subversive Seventies, Oxford University Press 2023, pp. 1-11, 149-80, 203-15 e 233-57

  2. V. Bevins, If We Burn, Wildfire, London, 2023, pp. 3-4. Per quanto riguarda i dati empirici, i quali non tengono conto dell’ondata di mobilitazioni avvenuta nel 2020 – dal movimento BLM negli Stati Uniti alla miriade di proteste dei lavoratori e delle lavoratrici contro la gestione della pandemia, fino all’incredibile sciopero di 250 milioni di contadini e contadine in India – Bevins si basa sullo studio condotto da S. J. Brannen, C. S. Haig, K. Schmidt, The Age of Mass Protest: Understanding an Escalating Global Trend, CSIS Risk and Foresight Group, March 2020